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La Mente Relazionale

Articolo a Cura del Dott. Mirco Goro

Stephen Mitchell e la nuova concezione della Psicoanalisi Contemporanea

I lavori di Mitchell possono essere visti come una sintesi Kantiana tra Esperienza e Ragione cheStephen Mitchell e la nuova concezione della Psicoanalisi Contemporanea
I lavori di Mitchell possono essere visti come una sintesi Kantiana tra Esperienza e Ragione che ha gettato le basi per una sintesi psicoanalitica tra il modello strutturale delle pulsioni (innatista, biologico, centrato sullo studio della vita intrapsichica) e il modello strutturale delle relazioni (psico-sociale, ambientalista e centrato sullo studio delle relccolto da una psicoanalisi moderna..]”(Greenberg, Mitchell, 1983). Apprezzare il contributo di Mitchell alla psicoanalisi e a concetti come quello di rappresentazione in particolare, necessita di un ulteriore spiegazione di questo punto. Mitchell sottolinea come le due posizioni presentino aree di sovrapposizione. La psicoanalisi Classica descrive, ad esempio, come le pressioni endogene trovino soddisfacimento oppure incontrino ostacoli nell’interazione con l’ambiente e come tali vicende strutturino la personalità dell’individuo. La strutturazione della mente e la sua psicopatologia sono le risultanti di un conflitto che si crea tra pulsioni e difese, e successivamente tra le istanze psichiche (Es, Io, Super-Io). Al contrario, le teorie relazionali pur considerando cruciali le interazioni tra persona ed ambiente, attribuiscono un peso significativo alle prime relazioni primarie nello sviluppo psichico del bambino. Tali teorie, pur considerando importanti funzioni specifiche delle relazioni primarie come contenimento, rispecchiamento, separazione, attaccamento, e così via, condividono tutte il principio che una organizzazione sana e autentica della mente sia il frutto di una buona relazione con gli agenti delle cure; di conseguenza la psicopatologia deriverebbe da interazioni disfunzionali con l’ambiente. Quindi mentre le teorie pulsionali mettono al centro dell’osservazione psicoanalitica il conflitto intrapsichico, le teorie dell’arresto evolutivo (così l’autore si esprime sulle teorie delle relazioni primarie) mettono al centro il deficit causato da relazioni primarie disfunzionali. Il rischio di entrambi gli approcci è quello di ipotizzare un essere umano “condannato”, un essere umano obbligato al conflitto tra bisogni e realtà, o al contrario dipendente dalla sorte di una buona funzione ambientale, creando un peso causale eccessivo ai primi anni di vita. Così Mitchell si esprime “[… l’utilizzazione del bambino come metafora è stata così tipica della psicoanalisi fin dai suoi inizi, che tendiamo a dare per scontato che spiegare i fenomeni adulti in termini di prototipi infantili equivalga in realtà a fornire resoconti causali, fattuali, invece che a mettere in luce analogie dell’esperienza, che a loro volta richiedono un indagine ulteriore..]” (Greenberg, Mitchell, 1983). Credendo fortemente riduttive queste due prospettive, propone una sintesi tra queste, formulando il paradigma del modello del conflitto relazionale. La definizione di conflitto relazionale consente di colmare questo gap: ancora Mitchell, “[…nel modello del conflitto relazionale gli antagonisti dei conflitti psicodinamici sono le configurazioni relazionali, le passioni conflittuali inevitabili all’interno di ogni relazione, e le richieste opposte, necessariamente incompatibili, tra le diverse relazioni e identificazioni significative…]” (Grennberg, Mitchell, 1983).

Alla luce di queste considerazioni, nella proposta relazionale i concetti di rappresentazione acquistano una connotazione profondamente diversa rispetto alle proposte precedenti, più fluida e maggiormente permeabile, dove i confini tra ambiente esterno ed intrapsichico sono meno definiti e assumono natura plastica. La competizione nel conflitto relazionale infatti, si crea tra i diversi modelli relazionali che il soggetto ha interiorizzato, costruendo mappe che regolano l’esperienza soggettiva delle interazioni e che sono riattivati ripetutamente nel tentativo di ripercorrere schemi familiari, generando quella che Mitchell chiama: “Matrice Relazionale”.

Il paradigma Relazionale e Rappresentazione: la mente relazionale

La definizione mente relazionale, che Mitchell più volte introduce, ha necessariamente comportato una ridefinizione del concetto stesso di rappresentazione alla base della formulazione di una mente come mente individuale. Si è passati da una descrizioni in termini di strutture predeterminate emergenti dall’interno di un organismo individuale, a una descrizione basata su modelli transazionali e strutture interne derivate da un campo interattivo interpersonale. La mente, per la psicoanalisi relazionale, è prodotto e attore della matrice relazionale nella quale è inserita e parallelamente agente attivo: <il campo relazionale è costitutivo dell’esperienza individuale>. Come vedremo successivamente, gli studi di D. Stern e dell’ infant research sosterranno questa prospettiva mostrando come il bambino sia sin dalle prime ore dal parto, inserito in una matrice relazionale di interazione con l’ambiente. Egli arriverà ad affermare che la rappresentazione che ogni individuo ha di se stesso è una costruzione basata sulla realtà delle interazioni. Mitchell stesso definisce la mente individuale come un ossimoro: “dire che una mente individuale è un ossimoro significa che nessuna mente individuale umana può sorgere sui generis e sostenersi in modo del tutto individuale dalle altre menti. La soggettività umana, per l’autore, si sviluppa sempre nel contesto dell’intersoggettività, processando ed organizzandosi in pattern ricorrenti che definiscono la complessità di noi stessi e del nostro mondo. Partendo da questi assunti, Mitchell definisce due concetti: quello di campo-regolatore, e quello di processi auto-regolatori. All’inizio c’è una matrice relazionale, sociale, linguistica che definisce la nostra esperienza sin da subito. In questa matrice siamo precipitati e formati, come psiche individuale, spazi interiori, di cui facciamo esperienza a livello soggettivo. Questi spazi soggettivi iniziano come microcosmi nel quale le relazioni interpersonali sono interiorizzate e trasformate in un esperienza personale, generando a loro volta nuove proprietà emergenti che a loro volta creano nuove forme interpersonali, che poi alterano di nuovo questi spazi soggettivi microcosmici di interazione. Cosa più importante e fondamentale è che per Mitchell, processi relazionali interpersonali generano processi relazionali intrapsichici, in un susseguirsi di nuove riformulazioni e riplasmazioni interpersonali. Prendendo ispirazione dai lavori di Loewald, Mitchell arriva a definire le menti come organizzate dalle nostre esperienze secondo principi diversi e strutture di organizzazione mutevoli. Loewald contrapponeva spesso i diversi livelli di organizzazione del processo primario con quelli del processo secondario variando tra i gradi di articolazione dei confini spaziali tra Sé e l’Altro, interno ed esterno, emergendo nelle primissime fasi di vita e organizzandosi e plasmandosi parallelamente durante tutto il corso della vita. Interno ed esterno per Mitchell, si perpetuano in modo continuo e fluido, rigenerandosi e plasmandosi continuamente. Come Loewald (ed Ogden), Mitchell distingue dei “modi”, quattro, che si organizzano e si distinguono in modo progressivo e che si influenzano e plasmano parallelamente e reciprocamente nel corso di tutto lo sviluppo dell’individuo. La definizione e le spiegazione che Mitchell da di questi modi, prende spunto da numerose osservazioni di altri autori tra i quali, Sullivan (con le interviste dettagliate per l’analisi del “qui ed ora” della relazione analitica), Bowlby (con i modelli operativi interni), Beebe, Lachmann e Stern (con gli studi sull’infant research sugli scambi regolatori tra madre-bambino). Il modo 1 – del comportamento non riflessivo, emerge come un livello di organizzazione procedurale presimbolica (Beebe et al, 1997) in cui le interazioni tra infante e ambiente esterno in una sottile coreografia di adattamenti interpersonali. A questo livello, le interazioni funzionano senza una concettualizzazione organizzata del sé e dell’altro in una interazione co-costruita. Si tratta di cosa le persone fanno l’una dell’altra, organizzandosi secondo un influenza e regolazione reciproca. Il modo 2 – della permeabilità affettiva, è un’esperienza condivisa di affetti intensi connotati da una permeabilità dei confini. Come afferma Mitchell, gli affetti sono contagiosi e, a livello più profondo, gli stati affettivi snon spesso trans personali. Gli affetti intesi come angoscia, rabbia, eccitazione sessuale, euforia, depressione taendono a generare corrispondenti nelle altre persone. Tendono a essere evocati a livello interpersonale per mezzo di risonanze emotive che si generano tra le persone stesse, per tutta la vita ed ai livelli più profondi ed inconsci. È quello che possiamo definire come livello affettivo fondamentale dell’esperienza e senza confini, quello del legame empatico. Come suggerisce Loewald, le esperienze emotive potenti sono registrate in modo per il quale ciò che io sento non è organizzato indipendentemente da ciò che tu senti, ma come entità esperita globalmente. Nelle esperienze del modo 2 le risonanze affettive dirette emergono in diadi interpersonali. Il modo 3 – delle configurazioni Sé - Altro implica che le esperienze interpersonali siano organizzate in configurazioni sé-altro, quelle che Sullivan chiamava “pattern io-tu”; Kernberg “configurazioni sé-altro-affetto” o rappresentazioni del sé e dell’altro. A quello livello, simbolico, di organizzazione le organizzazioni co-costruite sono separate e aggregate diversamente in modo conscio o inconscio (ad esempio rappresentazioni di sé come figlio di uno o l’altro genitore). L’interiorizzazione dell’altro si configura come un interiorizzazione plasmate nella relazione di me stesso in relaziona all’altro e dell’altro in relazione a me. Mitchell afferma: “[… ci sono volte in cui im sento (consciamente o inconsciamente) il figlio di mio padre che si mette in relazione a mio padre, e altre volte in cui mi sento mio padre (per mezzo dell’identificazione) in relazione a me… io sono in un certo senso il figlio del conscio di mia madre, e in un altro senso il figlio dei conflitti inconsci di mia madre..]”. I contributi più significativi secondo Mitchell, ed altri autori relazionali tra cui Ogden, Aron, Bromberg, sono arrivati dalla teoria delle relazioni oggettuali interne di Fairbain, in particolare rispetto a due principi fondamentali per lo stesso: la formazione del sé e quella dell’altro-oggetto sono inseparabili; e la molteplicità dei sé come organizzazioni discontinue e multiple unite da un senso illusorio di continuità e coerenza che ha caratteristiche sia consce che inconsce.

Questi tre modi di relazione non permettono ancora di esperire l’altro come soggetto indipendente e separato rappresentando quello che Kohut ha considerato come relazione oggetto-sé. Nel modo 1, gli altri partecipano in pattern di interazioni ricorrenti che non sono ne simbolizzati ne fatti oggetto di riflessione; nel modo 2, gli altri partecipano a connessioni affettive di esperienze affettive; nel modo 3, gli altri, simbolizzati, giocano comunque ruoli funzionali che siano di specularità, eccitazione o soddisfazione, etc. Solo ne modo 4 ci sono altri organizzati come soggetti distinti. Nel modo 4 – dell’intersoggettività, le persone, sia se stessi sia gli altri, diventano agenti complessi dotati di un’intenzionalità autoriflessiva. Si è soggetti riconosciuti da altri esseri umani e si è in grado di riconoscere gli altri esseri umani come soggetti. Vie una tensione profonda tra gli sforzi tesi a fare a nostro modo, che non espressione della nostra soggettività, e il nostro dipendere da un’altra persona, in quanto soggetto autonomo, che ci garantisce il riconoscimento di cui abbiamo bisogno.

Le formulazioni di Mitchell hanno permesso lo svilupparsi di nuove modalità cliniche. Nel momento in cui la psicopatologia è interpretata alla luce degli sviluppi della matrice relazionale, anche il focus della terapia analitica diventa la costruzione di una nuova esperienza interpersonale significativa, che permetta al paziente l’assimilazione di nuovi modelli relazionali. La tecnica subisce così trasformazioni rivoluzionarie già in parte intraprese precedentemente (vedi la mutualità del cambiamento in Ferenczi). Concetti come quello di responsività autoriflessiva stanno ad indicare proprio come la neutralità, non appartenga più al campo psicoanalitico, investendo il terapeuta di una partecipazione attiva che possa cogliere gli stati del Sé e le organizzazioni interattive discontinue e mobili i soggeti della relazione creando nuove organizzazioni sé-altro.


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